30 dicembre 2006

Desiderando


Si svegliò desiderando la morte.


Pensò alla pace, alla serenità, al freddo nelle ossa. Lui che aveva sempre sofferto il caldo. Pensò al niente assoluto e a come sarebbe stato bello viverlo. E si diede dell’imbecille, come ormai capitava ogni mattina.
La penombra della stanza era squarciata dalla luce calda e violenta che il sole infilava prepotentemente nelle fessure della serranda. Il braccio sinistro dolorante e la mano intorpidita non gli lasciavano dubbi: non era un sogno.
No, il suo desiderio di morte era un pensiero cosciente. Non era frutto d’allucinazioni o visioni oniriche. Era un’idea elaborata da sveglio. Appena sveglio. Un idea lugubre, razionalmente immotivata e soprattutto angosciosa.
Muovendo a stento le dita anchilosate quasi non si rese conto del violento formicolio che accompagnava il risveglio dell’arto dormiente. L’eco della morte ne distoglieva l’attenzione rendendolo confuso e stralunato. Non era possibile continuare così. Doveva fare qualcosa.
Valerio sedette sul bordo del letto massaggiandosi un ginocchio indolenzito. Neanche quarant’anni e già scricchiolava tutto. Stava invecchiando. Non che fosse l’unico, però invecchiava male. O almeno così gli sembrava.

Certo che sei un bel cesso…
Il ginocchio spappolato, la schiena a pezzi, la spalla fuori uso: sembri una macedonia!
I capelli più bianchi che neri, il ventre prominente.
Cazzo!
Neanche a nominarlo quello che pure lui funziona come gli pare…
E poi questo dolore al braccio sinistro ed ai pettorali.
Accidenti a me e a quando ho smesso di andare in palestra!
Sarà mica peggio di così la vecchiaia?
No, ditemelo.
Che forse l’idea della morte…

ton bzzz … ton bzzz … ton bzzz …

«Sono sveglio, sono sveglio…» biascicò Valerio. E spense la sveglia del telefonino.
Odiata e stramaledetta quotidianamente, la sveglia, per una volta oltre che utile era stata anche opportuna. Non che questo la rendesse simpatica, sia chiaro.
Si preparò per uscire. Sempre confuso non ricordava bene che impegni avesse preso. Però doveva uscire, ne era sicuro.
L’acqua della doccia non era né calda né fredda. Anzi, non sembrava nemmeno bagnata. Si vestì di malavoglia con jeans e maglietta: che fantasia. Vestiva così praticamente sempre. Colpa del caldo. Anche se adesso non sembrava caldo. Ma neanche freddo. Bah, altro che mezze stagioni.
Uscì di casa e s’incamminò. Dove doveva andare? Forse in banca. In fondo per tanti anni c’era andato quasi tutti i giorni in banca. Volete che proprio oggi non ci dovesse andare?
Valerio non lavorava in banca, lui lavorava con le banche come libero professionista. Era un lavoro che non gli era mai piaciuto. Ciononostante era piuttosto bravo.
Bene, il dado è tratto. Vada per la banca.

Lungo la strada Valerio pensò di aver fame. Non che si sentisse effettivamente affamato ma era digiuno da chissà quando e poi era normale essere affamati. Forse per questo la sua pancia cresceva ogni giorno un po’. Colpa di questa fame insaziabile ed atavica. Una fame che ruggiva anche quando non c’era.






fame
non è solo
mangiare


FAME
è
bisogno
di
mangiare

non importa dove
non importa cosa
importa
solo
mangiare



Di fronte alla banca c’era un fast food. Bastava attraversare. Niente di più facile. Almeno nelle intenzioni. Si, perché il traffico intenso qualche problemino lo creava.

Ma guarda che stronzi: corrono tutti.
Ce ne fosse uno che si ferma…
Neanche fossi invisibile!


Non senza qualche intoppo, Valerio raggiunse il bancone del Mc Donald. Il locale enorme era semi deserto. In fondo era mattina e, si sa, gli italiani a colazione son popolo di cappuccino, non di hamburger.

Dunque: un McChicken menù grande, un Big Mac menù grande…
Poi un Tasty, due bacon e quattro cheeseburger, solo i panini.
I menù li voglio uno con la coca ed uno con la fanta.
Salse…certo: voglio la maionese!
Tanto quella va su tutto…
No, non mangio qui.
Porto tutto via.
Che mi son sempre vergognato a far sapere che mi mangio tutto da solo.
No, non è un pic-nic familiare.
È solo la mia colazione!

Valerio uscì dal locale ed attraversò nuovamente la strada e si diresse verso una panchina libera. Si sentiva ancora tutto scombinato ed indolenzito. I muscoli del braccio e del petto non gli davano tregua. Forse era un po’ d’influenza, di quelle che sembrano tritarti le ossa.
Si sedette pesantemente emettendo un sospiro. Poggiò la schiena alla spalliera, chiuse gli occhi e si portò le mani al volto in quello che poteva sembrare uno strano massaggio. Si sentiva stanco.

Un impermeabile sotto la panchina?
Ed anche una cinta.
E delle scarpe…
Sembravano muoversi come se fossero animate da vita propria.
Un uomo sdraiato? A terra, sotto la panchina?
Improbabile.
Impossibile.
A meno che non fosse l’uomo invisibile…

Valerio balzò in piedi col respiro affannato. Si voltò intimorito verso la panchina e: niente! Non c’era niente. Doveva aver sognato. Sicuramente si era assopito e la sua immaginazione fin troppo fervida aveva fatto il resto.

Ma che cazzo!
Ci si mettono pure i sogni adesso.
Sarà proprio una giornata lunga.
È cominciata male e promette di finir peggio.
Non ho voglia d’andare in banca.
E poi ho ancora fame…

Incredibile ma vero: Valerio era affamato. Se ne stupì per primo, anche se, pensandoci bene, non ricordava d’aver mangiato. Si chiese dove fossero finiti i panini che aveva appena comprato. E non seppe rispondersi. Erano come scomparsi.
Sempre più confuso e malconcio, Valerio non riusciva a darsi una spiegazione dell’accaduto. Ma non gli era nemmeno semplice far finta che nulla fosse successo. Forse sarebbe stato meglio tornarsene a casa e riposarsi un po’. Non prima però d’aver comprato qualcosa da mangiare e magari anche qualcosa per quel dolore al petto e al braccio che non accennava a passare.

Ma come cazzo ho dormito?
Devo essermi messo tutto storto
Sarà per colpa del letto nuovo.
Stretto, scomodo…
Sono stanco, ho bisogno di riposare.
E poi ho ancora fame…


Valerio decise che il supermercato sarebbe stato la scelta più indolore. Poteva comprare del cibo e sbrigarsi, E poi era anche vicino. Anzi, praticamente era già lì.
Carrello o cestino? Meglio cestino, era più faticoso da portare ma permetteva l’uso delle casse automatiche, dove la fila non c’era quasi mai. E lui odiava la file e le attese inutili. Da sempre.

Ma cos’è?
Un bambino in bicicletta…
Correva a perdifiato tra gli scaffali del supermercato.
Correva.
Trapassando le persone.
Che sembravano non accorgersi affatto di lui.
Correva.
O forse volava…

Valerio si sentì davvero esausto. Sarebbe andato a casa e si sarebbe rimesso letto. Niente di meglio, dopo una giornata così aveva bisogno di riposare. Sempre se la fame gli avesse concesso una tregua…



don … don … don …



Casa, finalmente!
E finalmente un letto.
Mi sdraio.
O forse son già sdraiato.
Che palle questa campana che rintocca…
Sarà mica morto il papa?

Mi sdraio.
Ah, finalmente il mio letto.
Legno di noce e rivestimenti di velluto.
Scomodo però questo letto.
Sarà per gli inserti in piombo…

Così, sdraiato nell’oscurità, immobile, Valerio ricordò. Ricordò il pranzo che non aveva mangiato, il dolore lancinante al braccio sinistro, al petto, al cuore. Ricordò la propria morte. Sentì il freddo profondo prendere possesso di lui. Si rivide vagare per il mondo: affamato ed invisibile. E seppe di non avere scampo.


Si addormentò desiderando la vita.


21 dicembre 2006

No, noi no



Cielo nero

lontano

asfalto nero

corro veloce

cielo nero

irraggiungibile

e nero


e nel nero

avvolgente

disegno pensieri

bianchi di fumo

su cielo nero


nebbia bianca

e mondo nero

veloce

immobile

incoerente

e nero


e nel nero

mi perdo

vi perdo

ti perdo

(no, noi no)

nel cielo nero


veloce

senza meta

nel nero

(ci stiamo perdendo)

nonostante il nero

(non ci perderemo mai)

d'un cielo buio

(ci siamo già persi)

senz'ombre

(no, noi no)

e nero...

16 dicembre 2006

Roma bagnata (Com'eravamo - Marzo 1999)


Me scapicollo a casa e so' contento,
trovo 'na portrona e lì m'accascio
guardanno l'acqua che vie' giù a scatafascio,
me piace e quasi quasi mo me pento.
Lo so che Roma è bella ne lo sguazzo,
che quanno l'acqua vie' giù a marzo,
scrosci ae picchietta er fiume co' l'argento,
poi la ricopre d'un lucente manto
slontana tutti quanti e ne la strada
se vede 'a trasparenza de 'na giada,
e come 'na fanciulla che fa er bagno,
se lucida la pelle de bitume
fa risplenne er brillocco d'ogni lume
pe' falla fascinosa ar su' compagno.
Che nova c'è?
M'arzo, pijo l'ombrello
che m'aripari armeno la capoccia
m'accordo er sono lieve d'ogni goccia
e ne la pioggia je canto 'sto stornello:
- Roma bagnata
te vojo manna' 'na serenata
er canto d'un modesto menestrello,
che pure in mezzo
de 'sta gran buriana,
te vede pe' quer che sei
una gran dama;
e pija coraggio
e t'offre su' l'anello,
incastonato come er su' gioiello
'na gemma, la più bella
er sole che laggiù fa capoccella -

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11 dicembre 2006

Witico (Com'eravamo - Dicembre 2005)


Molte persone lo hanno conosciuto.
Nessuno saprebbe raccontarlo.
O forse, nessuno l’ha mai saputo.
I rari e fortunati umani consapevoli dell’esperienza vissuta, ricordano Witiko come un uomo semplice.
Witiko sembra un uomo semplice.
O forse sembra un uomo…

Il suo aspetto è irrilevante.
La sua forma mutevole.
Witiko è un cacciatore.
Un predatore.

Il predatore.

Viaggia su questa terra da molti anni.
Da migliaia di anni.
Ed è sempre affamato.

Molte civiltà si ricordano di lui, senza saperlo.
Alcuni lo chiamano Nahual, altri Lobizon.
Noi lo chiamiamo Licantropo.
L’uomo lupo.

Molte false leggende ci raccontano di lui.
Della sua forza, delle sue debolezze.
Leggende, solo leggende.
Niente di vero.
Niente luna piena.
Niente ululati.
Niente proiettili d’argento.
Niente debolezze.
Niente, può fermarlo…

Witiko
Il re della morte.
Il terrore degli uomini.
La speranza della natura.
Lo spirito del bosco.

Witiko combatte da millenni contro un violento parassita che minaccia di distruggere il mondo: l’umanità.
I suoi poteri sono immensi.
La sua forza suprema.
Legge il pensiero dei suoi nemici e ne condiziona la volontà.
Può prevedere il futuro.
Ha la fiera determinazione del giusto.
Ma sta perdendo.

Gli uomini si riproducono esponenzialmente.
Esauriscono le risorse.
Cancellano i boschi.
Distruggono la natura.

Gli uomini sono miliardi

Lui è sempre solo.





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10 dicembre 2006

Ippopotamo



– Ecco, hai visto?
– ...
– Te l'avevo detto di dargliela per buona!
– Ma...
– Ma quale ma e ma...
– ...
– Corri a richiamarlo!
– Io?
– Si, tu! E sbrigati!

Per niente convinto corsi fuori dalla porta.
Mamo era lì che avanzava a passo lento sul vialetto, ostentando il suo modo di fare sdegnato.
Ad ogni passo uno stillicidio di umidi umori ematici inzaccherava la strada.
Miliardi di eritrociti ferrigni accompagnavano il suo passo fin troppo claudicante.
Nello sguardo il vuoto dello smarrimento.
Sulle labbra una smorfia ambigua.
Un po' ghigno e un po' voragine ferina.
Sotto il braccio destro: una scatola enorme.
Dentro, tutte mischiate e scomposte, migliaia di parole.
Confuse tessere di un gioco infinito.
Ma vecchio come il mondo.

– Mamo, aspetta!
– ...
– Mamo!
– Il gioco è mio...
– Mamo, per favore, ascoltami!
– ... e si gioca come dico io!
– Mamo, te lo diamo per buono!
– Mi date per buono cosa?
– Ippopotamo!
– Come animale domestico con la i?
– Si.
– Bene, allora possiamo ricominciare a giocare...

Fu così che Mamo rientrò in casa e ricominciammo a giocare.
Non fu una buona idea.
O almeno non lo fu per me.

D'altronde avrei dovuto saperlo: quando il padrone di un gioco s'avvale del suo potere per interpretare le regole a suo comodo, continuare a divertirsi diventa un optional.
Anzi, più che un optional, il divertirsi sarebbe stato un miracolo.
Ed i miracoli, si sa, non son cosa frequente in questo mondo.

Il gioco intanto continuava stanco, mio malgrado. Tra improbabili animali, città fantasma, eliminazione di lettere sgradite e continue, reiterate, meschine intimidazioni.

– Cuccioli con la L.
– Lupino!
– Ma come lupino? Semmai lupetto...
– Lupino!
– Ma è un legume...
– Ho detto lupino! Altrimenti me vado!
– ...
– E il mio gioco lo porto con me!

No, non era possibile continuare così.
Proprio non mi divertivo più.

Anzi, lo sgomento e lo smarrimento che leggevo negli occhi degli altri giocatori mi deprimeva.
Cercai di fingere, ma non ero molto bravo.
Allora chiusi gli occhi e spensi il cervello.

Avrebbe potuto funzionare.
Se solo le ferite di cartapesta che tappezzavano il corpo di Mamo non avessero sanguinato così copiosamente da allagare la stanza, forse...
Ma il livello del sangue cresceva senza sosta.
Ne percepivo l'odore ferroso e pungente.
Lo sentivo bagnarmi, lordandomi i vestiti, la pelle, l'anima.
E, improvvisamente, seppi che non potevo continuare.
Guardai in faccia gli altri astanti.
Colsi sentimenti contrastanti: dolore, sconcerto, indifferenza, paura.
Ma il sangue sovrastava tutto e molti di loro neanche riuscii a distinguerli più.

Non potevo tacere oltre.
O forse avrei dovuto tacere per sempre.
Frastornato ma deciso, seguii l'istinto.
E urlai il mio dissenso.
Il mio dolore.
Ma le onde sonore si persero nel vuoto.
Lasciando come unica eco un immobile, ingombrante, eterno
silenzio.

Da oggi in poi
zitti tutti
con quel mondo afono
e prigioniero di se stesso
non ci gioco più.

Sentimenti contrastanti
ma, soprattutto,
silenzio!